Con la diagnosi e con l’evoluzione della malattia, la persona con MICI è chiamata ad adattarsi ad una situazione nuova, caratterizzata da un senso di perdita, in risposta alla quale deve riorganizzarsi per trovare un nuovo equilibrio psicologico e questo processo si ripeterà più volte di fronte alle diverse fasi della malattia, ma anche nei confronti degli eventi di vita che si presenteranno.
Emozioni e malattia
Oltre ad avere a che fare con sintomi fisici come il dolore, pone di fare i conti con le proprie reazioni emotive. Avere la diagnosi di una malattia cronica, potenzialmente imbarazzante come la Malattia di Crohn o la Rettocolite Ulcerosa, può innescare una serie di emozioni.
Spesso la diagnosi arriva dopo un periodo di malessere e di paura per questo stato fisico nuovo e le persone possono reagire con una miscela di shock, depressione, ansia, diarrea e fatica, vergogna, rabbia, sollievo.
La reazione di SHOCK si può manifestare con una sorta di blocco emotivo, di derealizzazione, che si può esprimere con i seguenti comportamenti: fare pochissime domande, piangere raramente, non mettere mai in discussione i trattamenti proposti.
Se la reazione è quella DEPRESSIVA, vedremo allora una persona disperata che percepisce un futuro soltanto buio, che pensa di dover rinunciare a tutti i progetti che aveva fino a quel momento, che si chiude in se stessa, diventa apatica e non si attiva in nessun modo per affrontare la malattia.
La reazione di ANSIA rispetto ad una diagnosi di una malattia di cui ancora si conosce poco e della quale si conoscono soltanto i sintomi, spesso gravi dell’esordio, e che necessitano di accesso in Pronto Soccorso, di ricovero se non addirittura di chirurgia d’urgenza, è forse la reazione più comune e più comprensibile di fronte ad un futuro che si percepisce incerto.
La VERGOGNA è una emozione che può essere suscitata dai sintomi (nella “carriera” della persona con MICI è sicuramente accaduto di “farsela addosso” o di doversi fermare per strada dovunque si fosse). Fin da piccoli abbiamo imparato che tutto ciò che ha a che fare con le feci e l’organo che le produce deve essere nascosto e una malattia che, almeno in alcuni periodi, ci impedisce di nascondere questa parte della nostra vita, è sicuramente molto imbarazzante. Tuttavia, è anche possibile che la vergogna sia suscitata dalla sensazione di essere in qualche modo colpevoli per la malattia o di essere “da meno” perché malati, in una società che fa dell’assoluta efficienza fisica un mito.
La RABBIA, al di là dei luoghi comuni sulla reazione alla diagnosi, è forse la più diffusa reazione alla scoperta di avere una malattia. Questa emozione è caratterizzata da una forte reattività: la persona si ribella all’idea di essere malata, non vuole rinunciare alla sua vita e ai suoi progetti. È arrabbiata con chi ha fatto la diagnosi, con chi non capisce, con la sorte che gli è toccata, con chi sta bene e ha tenuto comportamenti a rischio... con il mondo. Ma se la rabbia si cronicizza, facendosi RANCORE, può diventare un ostacolo alle relazioni sociali e creare il vuoto intorno al malato e, ancora peggio, determinare una frattura con l’équipe curante vissuta come causa del proprio malessere.
La reazione di SOLLIEVO alla diagnosi è dovuta al fatto che il malessere fisico ha finalmente un nome, che si possono tacitare coloro che fra parenti e amici hanno sostenuto fosse tutta colpa dello stress e che con la diagnosi si può finalmente iniziare una cura.
Cosa posso fare?
Il primo passo da compiere è quello di analizzare il tumulto interno e dare un nome alle emozioni. Certamente si scoprirà che sono presenti un po’ tutte, che si alternano e si mescolano. Il secondo passo è provare a spiegare a sé stessi e agli altri (le persone importanti che ci stanno vicine) quali pensieri suscitano le diverse emozioni. Questo “mettere in ordine” le emozioni è molto importante, perché aiuta a non sentirsi trascinati da esse e a capire come poter affrontare ciò che le suscita. Capire non significa negare o nascondere: se ci sentiamo tristi, permettiamoci di piangere, se abbiamo paura, diciamolo anche a chi ci cura, se l’ansia ci assale condividiamola con chi ci sta vicino, se siamo arrabbiati, permettiamoci (mentalmente) di imprecare. E diciamoci che tutto ciò è normale, perché la diagnosi di MICI non è una banalità.
Una particolare attenzione merita la rabbia che è una emozione ricca di energia e se la persona con MICI riesce a trasformarla in quella che gli sportivi chiamano GRINTA, può diventare un valido alleato nell’imparare a vivere, nonostante la malattia cronica, una vita piena e soddisfacente.
E per l’ansia un suggerimento pratico: il movimento è un modo naturale per regolare i livelli di ansia (quando siamo ansiosi non riusciamo a stare fermi), per cui nei momenti di agitazione è di aiuto fare attività fisica, basta talvolta una semplice camminata. E comunque un’ansia moderata, quella che ci fa essere precisi e ordinati, responsabili ed affidabili è un ottimo alleato nel processo di cura, per cui accettiamola con benevolenza.
Convivere con la cronicità
Se pensiamo che le MICI insorgono per la maggioranza delle persone in età giovanile, possiamo ritenere che quasi nessuno sappia per esperienza diretta cosa sia la cronicità. Fino alla diagnosi si poteva avere avuto al più l’influenza, una gamba rotta, una malattia virale, tutte situazioni con un inizio e una fine. Appare quindi logico che, dopo l’esordio, con la remissione dei sintomi, la nostra mente, basandosi sulle esperienze precedenti, abbia pensato di essere guariti ed è per questo che la prima recidiva ci travolge facendoci acquisire la percezione che la nostra malattia è cronica, che, con alti e bassi (è una malattia ad andamento cronico-recidivante), ci accompagnerà per tutta la vita.
In questa seconda fase sviluppiamo un atteggiamento di ALLERTA permanente nei confronti del nostro corpo, volto a percepirne ogni possibile cambiamento, ogni più piccolo sintomo al fine di intervenire tempestivamente sulla possibile recidiva.
Le sensazioni di incertezza possono suscitare nuovamente ansie e preoccupazioni. Tuttavia, questo atteggiamento di allerta è senza dubbio da preferire ad un atteggiamento di RIMOZIONE della malattia, che porta il malato a fare finta di essere sano con la conseguenza di sospendere le terapie nei periodi di remissione, di non sottoporsi ai controlli, fino ad arrivare ad ignorare i sintomi di una recidiva, con il risultato di un peggiore controllo della malattia e di un aumento del numero e della durata dei ricoveri.
Occorre anche imparare a vivere la vita in modo diverso da quanto fatto prima della diagnosi, perché è vero che c’è un prima e c’è un dopo.
È necessario riuscire a vivere pienamente il momento presente, soprattutto se positivo. Se oggi mi sento bene devo cogliere l’attimo e fare quello che ho in programma, godendo pienamente di questa possibilità e senza pensare a ciò che sarà domani o fra un mese. E allo stesso tempo devo programmare la mia vita, considerando la presenza della malattia, ma non vivendola come uno ostacolo.
Convivere con la cronicità significa fare i conti con una presenza senza esserne schiacciati e senza sfidare la malattia con comportamenti inutilmente rischiosi come fumare, bere alcolici, fare uso di sostanze o praticare sport estremi. Trovare il giusto equilibrio fra una vita piena e soddisfacente e il mantenimento di un buono stato di salute è sicuramente impegnativo, ma è in fondo quello che tutti devono riuscire a fare.
Fronteggiare la fatica
La fatica nelle MICI si accompagna spesso all’attività di malattia ed è quindi un sintomo di pertinenza del gastroenterologo, ma per la sua natura di percezione soggettiva, ha degli importanti correlati psicologici. Può anche essere confusa con la depressione ed è per questo che la affrontiamo fra gli aspetti psicologici.
Può essere descritta come un senso schiacciante di stanchezza continua, mancanza di energia o sensazione di esaurimento che non è alleviata dopo il riposo o il sonno. È molto più della normale e usuale stanchezza che chiunque può provare dopo aver svolto molta attività fisica o mentale. Per le persone con MICI, l’astenia (affaticamento) può sembrare fisica (mancanza di energia o forza), ma anche mentale (mancanza di motivazione, concentrazione o attenzione) o una combinazione delle due. La fatica può essere molto imprevedibile, variando da un giorno all’altro o anche da un’ora all’altra. Può succedere all’improvviso, senza preavviso. Ansia, depressione e stress sono costantemente associati alla fatica nelle persone con MICI, tuttavia non è chiaro se l’ansia, la depressione o lo stress causino la fatica o siano il risultato di essa. L’infiammazione e il dolore possono contribuire all’astenia.
La fatica può influenzare molti aspetti della vita. Alcune persone hanno difficoltà a svolgere le funzioni quotidiane quando la loro malattia è attiva, a causa sia dei sintomi intestinali che della fatica. Può rendere molto difficile la partecipazione ad attività fisiche, come lo sport. Alcune persone trovano che non hanno l’energia anche per svolgere compiti quotidiani come guidare, fare i lavori di casa o andare a prendere i bambini a scuola. Nei giorni difficili, anche camminare da una stanza all’altra può richiedere un grande sforzo e può succedere di colpevolizzarsi perché ci si sente pigri.
Può accadere che la fatica renda difficile pensare logicamente e possa influire su concentrazione e memoria. Quando sei molto stanco, puoi sentire di non poter parlare correttamente e inciampare nelle tue parole. Alcune persone chiamano queste sensazioni “nebbia del cervello”.
La fatica imprevedibile può rendere difficile la partecipazione alle attività sociali e causare rinunce e isolamento. Se non si riesce a fare quanto si vorrebbe, può accadere di sentirsi frustrati e arrabbiati.
Cosa posso fare?
La prima cosa da fare è parlare della fatica con il proprio gastroenterologo, non sempre medici e infermieri sono consapevoli di quanto la fatica possa colpire le singole persone affette da MICI. La fatica non è un fallimento personale e non c'è niente di cui essere imbarazzati. È importante discutere tutti i sintomi e le preoccupazioni con il medico, poiché vivere con fatica persistente è inaccettabile, quindi fallo presente e assicurati di ricevere le cure di cui hai bisogno. Indipendentemente da quale sia la causa e quale l’effetto, lo stress emotivo o psicologico deve essere affrontato, ne parleremo più specificatamente nei paragrafi dedicati allo stress e al malessere psicologico.
Dato che la fatica limita le attività che riusciamo a svolgere, dobbiamo imparare a fare un elenco di priorità e iniziare da ciò che per noi è veramente importante. Prova a riflettere su ciò che per te è veramente irrinunciabile e inizia con fare quella cosa. Non ti ammazzare per riuscire a fare tutto, perché il giorno dopo riuscirai a fare ancora meno. E ricordati: quasi tutto può essere rinviato...
Vi sono prove che l'attività fisica bassa o moderata può ridurre la fatica. Potresti provare gradualmente ad aumentare la quantità di esercizio fisico che fai, facendo attenzione a non esagerare. Può trattarsi di attività semplici, come camminare per brevi tragitti invece di prendere l’autobus o la macchina, o andare in palestra o in piscina. Per fare la differenza è importante raggiungere il giusto equilibrio tra fare troppo ed estenuarsi e non fare abbastanza.
Il dolore
Le MICI, o alcune delle malattie ad esse correlate come le malattie articolari, possono causare dolore. Esiste una falsa credenza che chi sopporta il dolore è una persona forte e coraggiosa. Niente è più sbagliato: il dolore è un segnale che deve attivare comportamenti appropriati per rimuoverne la causa. Il dolore occupa un grande spazio mentale e porta con sé molti pensieri, alcuni utili, altri decisamente dannosi, per questo va affrontato e, possibilmente, risolto.
Il dolore è un insieme di tre elementi:
la componente sensoriale, il dolore fisico, determinato da un danno in qualche parte del corpo;
la componente emotiva, la paura determinata dal dolore;
la componente cognitiva, i pensieri su ciò che quel dolore significa.
È possibile e necessario intervenire su tutti e tre gli aspetti del dolore.
Il primo aspetto del dolore è di competenza medica e verrà affrontato con diversi strumenti a seconda che sia un dolore acuto o un dolore cronico. È un segnale che non deve mai essere trascurato e che può venire segnalato soltanto da chi lo prova. È quindi molto importante parlarne e segnalarlo al gastroenterologo che provvederà ad affrontarlo e, eventualmente, a coinvolgere altri specialisti.
La componente della paura si affronta cercando in primo luogo di restare calmi, per poter osservare attentamente il dolore che si prova in quel preciso momento: è un dolore costante o intermittente? Se ci presto attenzione diminuisce o aumenta? Se respiro con calma, concentrandomi sul respiro, il dolore si modifica? Se lo condivido con chi mi è vicino, è più sopportabile? È quello che succede quando un bambino che si è sbucciato un ginocchio cadendo, sente meno dolore quando la mamma lo abbraccia. La paura può creare un persistente stato di preoccupazione anticipatoria: si ha cioè paura che il dolore possa tornare anche quando non è presente. In questo caso sono utili tecniche di rilassamento (v. paragrafo sullo stress).
I pensieri che maggiormente aggravano la percezione del dolore sono quelli di impotenza (non ci posso fare niente), di catastrofizzazione (la mia vita è rovinata), di solitudine (nessuno può capire). Per affrontare questi pensieri, del resto tipici anche del convivere con la malattia, è utile un percorso di training psicologico che sviluppi capacità di soluzione dei problemi, che aumenti l’autostima e la resilienza emotiva (v. paragrafo sulla resilienza). Preferibilmente è un percorso da effettuare in gruppo sotto la guida di uno psicologo esperto di malattia.
Lo stress
Con il termine stress ci si riferisce a una risposta dell’organismo, non specifica, di difesa ad una vasta gamma di stimoli negativi, messa in atto per mantenere il proprio equilibrio e salvarsi. Da un punto di vista fisico si manifesta con la produzione di un ormone (il cortisolo) che causa un’accelerazione del metabolismo, del ritmo cardiaco e del respiro che predispone l’organismo all’azione nel caso di una situazione percepita come pericolosa. Questo meccanismo naturale, nato per far fronte ad un pericolo concreto esterno, nell’essere umano si attiva anche in situazioni che minacciano l’integrità psicologica e non soltanto fisica (paura per la propria autostima, di perdere la faccia, di non sembrare all’altezza, di perdere una competizione, di perdere il posto di lavoro, ecc.). Se però questo stato di allerta viene mantenuto a lungo nel tempo, porta a un calo di tensione caratterizzato da una sensazione di spossatezza. Lo stress in sé non è patologico e può essere causato anche da situazioni piacevoli (per esempio un matrimonio), ma lo diventa se l’organismo viene stimolato con grande intensità e per lunghi periodi, tanto da esaurire le energie e le risorse dell’individuo e da sviluppare una serie di sintomi correlati.
I più comuni sono stanchezza, insonnia, depressione e ansia fino a problemi a carico del sistema cardiocircolatorio.
Molti studi hanno cercato di capire il ruolo dello stress nell’insorgenza della malattia infiammatoria cronica intestinale e nella frequenza delle recidive, ma ad oggi non esiste una evidenza esclusiva del suo ruolo. Le più recenti ricerche parlano di una causa multifattoriale alla base dello scatenarsi della patologia e delle recidive e lo stress sembra avere la sua parte.
Certo è che il malessere psicologico è un fattore di peggioramento importante della qualità di vita, che accentua la percezione del dolore, disarma la persona di fronte ad una recidiva e consuma le risorse disponibili a far fronte agli eventi di vita e all’evoluzione della malattia.
Per questi motivi di fronte ad una cronicità come le MICI non si può non affrontare il tema di come fare i conti con lo stress. Lo stress è una reazione psicologica della persona a ciò che vive, viene perciò definito come soggettivo: ciò che stressa una persona, lascia del tutto tranquilla un’altra; la sensazione di essere stressati non dipende dalla quantità di cose che facciamo, ma da quanto ci sentiamo in grado di padroneggiare le diverse situazioni e questa sensazione può variare nel tempo. Per fortuna sappiamo anche che ci sono situazioni che ci proteggono dallo stress e che ci rendono meno vulnerabili.
Uno dei fattori che è considerato stressante dalla maggior parte delle persone è la pressione del tempo: avere sempre la sensazione di non riuscire a fare quello che dobbiamo entro una determinata scadenza è molto stressante. Quando poi la malattia ci impone i suoi tempi, perché la mattina non riusciamo ad uscire di casa in fretta, perché visite e controlli ci prendono tempo, perché la fatica ci fa essere meno attivi, perché i ricoveri ci costringono a fermarci per lunghi periodi, appare evidente che stress e MICI si presentano spesso a braccetto.
Riuscire ad individuare con precisione cosa ci crea disagio è un primo passo fondamentale per decidere poi come affrontare la cosa. Sicuramente dobbiamo imparare ad affrontare diversamente la vita, decidendo di sottrarci ad imperativi e impegni che non sono strettamente necessari.
Nei confronti dello stress sono di grande aiuto le tecniche di rilassamento che ci insegnano a prenderci alcuni minuti quotidianamente e a staccare dalla pressione della vita. In genere sono di facile apprendimento e sono applicabili in qualsiasi contesto, anche lavorativo o ospedaliero.
Di provata efficacia è il Training Autogeno (si impara anche in gruppo, in circa 10 sedute), ma anche il rilassamento Yoga.
Nato proprio per aiutare le persone a gestire lo stress, il protocollo di riduzione dello stress basato sulla Mindfulness (MBSR) è decisamente più impegnativo, in quanto richiede la disponibilità a praticare meditazione giornalmente, ma aiuta notevolmente a sviluppare un atteggiamento più sereno nei confronti di ciò che accade nella vita.
Per tutte le tecniche proposte è importante rivolgersi a centri riconosciuti e con insegnanti esperti, non è detto che siano psicologi. Sicuramente corsi di Training Autogeno possono essere effettuati anche in ospedale.
Le difficoltà della malattia
Al momento della diagnosi occorre fare i conti con la malattia, iniziare a convivere con l’idea che si è portatori di una malattia cronica. È una situazione di perdita di equilibrio. Dopo la diagnosi il malato si troverà a dover fare i conti con il fatto che la sua malattia non guarisce. In genere questa consapevolezza non arriva alla diagnosi, ma alla prima recidiva. Dopo un periodo di relativo benessere nel quale si può arrivare a credere di essere guariti, la ricaduta ci ricorda in primo luogo che la malattia è sempre dentro di noi, che dovremo farci i conti ancora per molto tempo... Spesso sentiamo dire che la malattia va accettata, ma è difficile accettare qualche cosa che ci sembra una fregatura. Forse è meglio allora pensare di dover imparare a convivere con una nuova realtà e per far questo sono necessari alcuni adattamenti psicologici. Non si può non fare a meno di riconoscere che la malattia è parte della propria realtà, come molti altri aspetti di sé, e che è con questi limiti e con queste risorse che si deve vivere. Per riuscire a vivere pienamente gli spazi di benessere che la malattia comunque consente, è necessario non assumere un atteggiamento di passiva rassegnazione, ma riconoscere la propria realtà, supportando la volontà di vivere a partire da una condizione, che è anche, ma non solo, di malattia.
Uno dei momenti di maggiore difficoltà è quando una terapia perde di efficacia ed è necessario un nuovo approccio di cura. È in questi momenti che si mette anche alla prova la relazione fra la persona con MICI e il suo gastroenterologo: se c’è un rapporto di fiducia, basato sul coinvolgimento del paziente nelle scelte terapeutiche, se si è aiutato il paziente a capire che ogni scelta terapeutica è sempre una valutazione di costi e benefici, se il medico ascolta con attenzione ciò che il paziente riferisce e cerca di darvi una risposta, sicuramente la persona con MICI sente che non sta affrontando da sola la sua paura e il suo malessere fisico e psicologico. È quindi molto importante avere un rapporto buono con il proprio gastroenterologo, al quale il paziente contribuisce facendo domande, comunicando dubbi e perplessità, riferendo con precisione sintomi e assumendosi la responsabilità dell’autogestione della malattia secondo le indicazioni del curante. È possibile che nella storia della malattia la persona con MICI debba affrontare un intervento chirurgico. La decisione da prendere riguardo la chirurgia, è sempre complessa e porta con sé molte difficili emozioni. Spesso accade inoltre che si arrivi a questa scelta in condizioni di prostrazione fisica e psicologica dovute al prolungarsi di uno stato di malessere fisico.
La paura dell’intervento, della stomia (temporanea o definitiva), delle conseguenze successive caratterizzano la situazione emotiva nel momento in cui deve essere presa una decisione importante e spesso non c’è nemmeno molto tempo per decidere.
Un intervento chirurgico, anche se riguarda l’interno del nostro corpo, lascia dei segni che rendono visibile la ferita subita dal corpo. Ogni modificazione corporea, porta con sé la necessità di prenderne atto, di ridefinirsi, di inglobare questa “novità”, cosa che naturalmente è più difficile se agli effetti benefici dell’intervento chirurgico si accompagnano effetti secondari non facilmente accettabili.
Conoscere la propria malattia significa parlarne in primo luogo con il gastroenterologo di riferimento e fare domande per capire.
Il secondo passo è capire che è un processo che richiede tempo, che evolve nel tempo, e che può essere rimesso in discussione anche dopo anni dalla diagnosi, quando la malattia ci costringe ad affrontare dei cambiamenti (terapia nuova, intervento chirurgico, nuovi sintomi).
Può essere molto utile confrontarsi con chi è più esperto, perché ha la malattia da più tempo o perché comunque è riuscito a ritrovare un nuovo equilibrio.
Tramite l’Associazione è sicuramente possibile parlare con altre persone che hanno la stessa malattia (in Associazione tutti i volontari sono persone con MICI), ma anche al centro clinico è possibile che ci siano gruppi condotti da uno psicologo.
E se i gruppi non ci sono possiamo sempre chiedere al gastroenterologo di attivarli.
Prendere una decisione riguardo al cambiamento di terapia o all’intervento chirurgico può essere particolarmente stressante quando si immagina che ci sia una sola scelta giusta possibile e si deve solo capire quale sia.
Per prendere una decisione che sia la più saggia possibile bisogna:
Assicurarsi di avere tutte le informazioni necessarie e per questo parlare con il gastroenterologo e/o con il chirurgo per capire bene costi e benefici di una decisione;
Confrontarsi con le persone care per avere supporto e conforto;
Riflettere su quali sono al momento della decisione le priorità personali e in base a quelle valutare le proposte ricevute;
Prendere un foglio bianco, dividerlo in due e scrivere da un lato i pro e dall’altro i contro rispetto ad una decisione. Serve soprattutto a fare chiarezza nella nostra testa e a capire se dobbiamo avere altre informazioni;
Evitare di “chiedere aiuto” a internet, si rischia di selezionare informazioni sbagliate e fuorvianti.
È possibile chiedere anche un altro parere medico, ma bisogna farlo con saggezza evitando di nascondersi dietro numerose consultazioni per rinviare una decisione.
Sentire un secondo parere può essere talvolta utile, talaltra fuorviante quando è diametralmente opposto al precedente. In ogni caso è necessario domandarsi perché si sente il bisogno di farlo.
Malattia e relazioni sociali
La malattia, soprattutto in fase acuta, pone limitazioni oggettive alla vita sociale, soprattutto fuori casa, con il rischio di suscitare sia una perdita di libertà che sentimenti di profonda solitudine. La perdita di libertà si lega fortemente al timore del sintomo fisico che rende meno capaci di affrontare la vita quotidiana e che richiede il supporto materiale di chi vive insieme alla persona con MICI. D’altro canto, il malato si trova a perdere la sensazione di sintonia con gli altri, sente di avere difficoltà a condividere emozioni, pensieri ed anche a chiedere aiuto.
È del resto vero che la malattia suscita, in generale, nelle persone sane un disagio che si esprime con reazioni molto spesso maldestre. Questo comporta che la persona malata si senta trattata dagli altri ingiustamente. A questo disagio emotivo le persone possono reagire in modo molto negativo per il malato, esprimendo sentimenti di pietà, di compassione, di estraneità, se non anche di evitamento per preservare la propria serenità. È di immediata comprensione che questi atteggiamenti degli altri possano acuire la sensazione di distacco e di isolamento nella persona ammalata. Per fortuna queste reazioni possono rappresentare soltanto un disagio iniziale che, con la maggiore comprensione della malattia, può essere superato trasformandosi in un atteggiamento empatico di vicinanza emotiva, se non di vero e proprio supporto.
Per preservare una buona qualità delle relazioni sociali è necessario imparare a comunicare la malattia e sulla malattia, in modo che l’ambiente sociale ci capisca e la capisca, ed impari a comportarsi in modo adeguato ai naturali bisogni di socializzazione.
Le relazioni affettive
La presenza di una malattia cronica rende i rapporti affettivi certamente più complicati, senza che questo significhi una rinuncia ad una normale vita di coppia. Naturalmente è diverso se la malattia si manifesta all’interno di un rapporto di coppia stabile oppure se essa si presenta quando ancora si deve stabilire una relazione affettiva importante. In quest’ultimo caso la malattia rende le persone più insicure e fragili nel timore di essere rifiutate proprio a causa della presenza della patologia. La malattia è un “terzo incomodo” nella vita di coppia, invade spazi, tempi e pensieri ed è, quindi, difficile iniziare una nuova relazione così come è difficile portarla avanti quando non si sta bene.
Se la malattia arriva a dividere due partner vuol dire che qualche cosa non andava bene anche prima e si è evidenziata al momento in cui la coppia ha dovuto affrontare questa nuova difficoltà. Nelle coppie ben funzionanti la malattia unisce e non divide.
La malattia può invadere anche il campo della sessualità: i dolori addominali, lo stimolo impellente, le terapie locali possono mettere a disagio sia uomini che donne nell’atto o nell’approccio sessuale e il timore di non essere adeguati nei rapporti, la paura di poter “fallire”, possono portare ad evitare l’intimità con il partner con evidenti conseguenze negative per la relazione di coppia. Per i portatori di stomia a queste preoccupazioni si può aggiungere l’imbarazzo per la protesi e il timore che si possa staccare. (v. brochure AMICI sulla sessualità)
La famiglia
I sintomi della malattia spesso invadono la quotidianità e possono interferire con la vita familiare (orari non rispettati, viaggi resi complicati, impegni con altri familiari non mantenuti, ecc.) e questo può creare disagio alla persona con MICI e a chi vive con lei. Essere malati significa anche, talvolta, provare stati d’animo che non sempre sono comprensibili a chi convive perché chi non ha la malattia non sempre è in grado di capirne i sintomi e i pensieri che essi suscitano. Inoltre, può accadere di essere in difficoltà a causa della malattia e, spesso, di dover chiedere aiuto, materiale o psicologico. Non sempre, però, è facile trovarsi nella posizione di chi deve chiedere all’interno di una relazione di coppia o familiare perché tutti noi abbiamo bisogno di sentire che le nostre relazioni affettive sono reciproche e che c’è un equilibrio fra il dare e l’avere.
Quando ad ammalarsi è un giovane il rapporto con i genitori può essere caratterizzato da alcune difficoltà: da un lato si può assistere ad una negazione della malattia che lascia i figli soli e dall’altro si può verificare un’iperprotezione ansiosa che limita fortemente la normale vita dei giovani e sovrastima le possibilità di cura da parte del gastroenterologo. Quando un figlio è affetto da una malattia cronica è normale che nei genitori si attivi un atteggiamento iperprotettivo, ma il desiderio di proteggere contrasta spesso fortemente con la naturale spinta all’autonomia tipica dell’età giovanile e può essere un elemento di forte conflitto familiare in quanto è assolutamente necessario che ogni ragazzo si conquisti la sua autonomia, anche in presenza di malattia. Un giovane affetto da MICI deve poter vivere la sua età: uscire con gli amici, andare a ballare, viaggiare, fare sport, innamorarsi.
La malattia può interferire con il normale processo di sviluppo della persona in tutte le fasi della sua vita, dalla giovane fino alla tarda età: essere figli, coniugi, genitori malati può essere diverso da rivestire gli stessi ruoli in assenza di malattia.
Le amicizie
A molti è sicuramente capitato, dopo la diagnosi di malattia e l’ingresso nel mondo della cronicità, di sentirsi abbandonati dagli amici. In effetti non sempre è semplice continuare a svolgere le attività che si facevano prima, dalla partita di calcetto, alla camminata in montagna, alla serata in discoteca, o allo shopping, per non parlare della “pizzata” e questo fa immediatamente perdere il contatto con gli amici che invece continuano a vedersi per svolgere le attività di sempre.
Chiedere aiuto non è sempre facile, ma è una abilità che può consentire di mantenere rapporti sociali, anche nei momenti più difficili della malattia. La comunicazione aperta e efficace sulla malattia con chi ci sta a cuore è la garanzia di poter continuare a frequentare gli amici di sempre. Può darsi che qualcuno comunque non capisca e si allontani...
Forse allora non abbiamo perso un vero amico. La malattia può avere l’effetto positivo di fare una sorta di pulizia fra le nostre relazioni sociali.
Nelle relazioni affettive la malattia deve essere considerata e accettata da entrambi i partner, per cui non si può fare a meno di parlarne, sia in una nuova che in una stabile relazione di coppia. Se la coppia sembra andare in crisi di fronte all’insorgenza della malattia, è forse utile rivolgersi ad uno psicoterapeuta esperto di relazioni di coppia che aiuti i partner a capire le ragioni di quello che sta accadendo e a trovare le possibili soluzioni.
Il malato ha il pieno diritto di gestire le informazioni che lo riguardano con la cautela che ritiene opportuna. È opinione diffusa che comunicare la malattia sul luogo di lavoro possa interferire con la possibilità di carriera in quanto la persona con MICI è ritenuta meno affidabile a causa della sua patologia.
Imparare a chiedere aiuto nel modo giusto e alle persone giuste è assolutamente necessario, perché ci sono alcuni momenti della malattia nei quali non siamo in grado di svolgere le nostre abituali azioni.
La prima cosa da pensare, prima di chiedere aiuto, è che ci saranno anche momenti buoni (per fortuna sono malattie con lunghi periodi di remissione!) nei quali potrò ricambiare l’aiuto dato e non sentirmi così in debito. La seconda è che non si può chiedere tutto ad una sola persona, anche la più disponibile, perché magari questo può superare le sue risorse e farla “scappare”.
Il malessere psicologico
Ricevere una diagnosi di MICI non comporta necessariamente lo svilupparsi di difficoltà psicologiche. Infatti, pur trattandosi di un momento molto difficile per tutti, tante persone dispongono di risorse personali e sociali sufficienti a raggiungere e mantenere uno stato di benessere.
Quando chiedere aiuto?
Oltre alle reazioni psicologiche di cui abbiamo fino ad ora parlato derivate dalla presenza di una MICI, va anche ricordata la possibilità che si manifestino dei disturbi più complessi e articolati che esigono interventi specifici e professionali per essere risolti.
Talvolta accade che un malessere che si era presentato in passato, si rifaccia vivo di fronte a questa nuova difficoltà.
Oppure ancora che ciò che sembrava gestibile, si trasforma in un vero e proprio disturbo psicologico che rende la vita pesante e non passa da solo.
In particolare, due sono i disturbi psicologici di cui è opportuno preoccuparsi e che sono più frequenti fra le persone con malattia cronica rispetto alla popolazione generale: l’ansia e la depressione.
L’ansia è un’emozione caratterizzata da sensazioni di tensione, minaccia, preoccupazioni e modificazioni fisiche, come aumento della pressione sanguigna, della sudorazione e del ritmo respiratorio. Le persone con Disturbi d’Ansia solitamente presentano pensieri ricorrenti e preoccupazioni. Inoltre, possono evitare alcune situazioni come tentativo di gestire (o non affrontare) le preoccupazioni.
Nella depressione, intesa come malattia, il sentimento di tristezza è soltanto uno dei vari sintomi che caratterizzano l’intero quadro clinico e che non ha relazione, oppure è assolutamente sproporzionato, rispetto a qualsiasi causa esterna che possa averlo provocato. La persona percepisce un calo del tono dell’umore, contrassegnato da infelicità, idee pessimistiche, diminuzione dell’interesse e delle attività (apatia), da senso di solitudine, sentimenti di colpa ed inadeguatezza e incapacità di provare piacere (anedonia).
In generale, sentirsi depressi significa vedere il mondo attraverso degli occhiali con le lenti scure: tutto sembra più opaco e difficile da affrontare, anche alzarsi dal letto al mattino o fare una doccia.
Molte persone depresse hanno la sensazione che gli altri non possano comprendere il proprio stato d’animo e che siano inutilmente ottimisti. Occorre che i sintomi siano stati presenti durante un periodo di 2 settimane e rappresentino un cambiamento rispetto al precedente livello di funzionamento; almeno uno dei sintomi deve essere costituito da umore depresso o perdita di interesse o piacere.
Cosa posso fare?
In genere il primo passo è rivolgersi a chi ci sta vicino, amici, familiari, il partner, ma se anche l’aiuto di chi ci sta vicino non riesce a farci stare meglio è allora possibile ricorrere all’aiuto professionale di uno psicologo per un percorso individuale.
A chi chiedere aiuto?
I professionisti della salute mentale sono lo psicologo e lo psichiatra. Occorre evitare di rivolgersi ad altre figure con minore competenza come il counselor o il coach, perché non specificamente preparati a trattare il disagio psicologico.
Lo psicologo si pone l’obiettivo primario di accrescere la consapevolezza e la capacità di scelta della persona relativamente alla propria vita, di accompagnarla in un percorso di crescita personale e di aiutarla ad attivare quei processi di cambiamento utili ad uscire dalle condizioni di disagio e/o realizzare i propri obiettivi nella vita.
Lo psicologo cerca di ascoltare, colloquiare ed interagire in modo empatico con l’individuo, agevolando in lui le espressioni verbali circa le sue dinamiche interne e fornendo utili e funzionali spiegazioni su di esse. Fornisce, quindi, una sorta di spiegazione chiara, semplice, interattiva, funzionale riguardo ai sintomi, alle dinamiche e alle caratteristiche delle problematiche psichiche, in modo da poter agevolare nell’individuo una riorganizzazione mentale e l’individuazione di risorse e strategie personali adeguate.
Il Sostegno Psicologico può essere molto utile anche quando vengono coinvolte persone vicine all’individuo afflitto da problemi psicologici (come ad esempio il partner, il coniuge, i familiari, i parenti, gli amici, etc.), in quanto può facilitare, anche in loro, una sempre maggiore chiarezza e un’analisi logica e pratica circa il disagio psicologico della persona cara e, quindi, favorire la loro personale riorganizzazione interna ed esterna nei rapporti con essa. Partendo dal presupposto che i problemi psicologici sono innescati da situazioni alle quali il soggetto non riesce a fare fronte, attraverso il Sostegno Psicologico si cerca, con interazioni e spiegazioni, di invertire tale tendenza incentivando la ricerca e la riattivazione di atteggiamenti sempre più propositivi per il benessere psico-fisico.
In alcuni centri clinici è stata fatta anche la positiva esperienza del supporto psicologico in gruppo con particolare soddisfazione da parte delle persone con MICI.
Il gruppo è vissuto positivamente perché permette di condividere pensieri con persone che vivono la stessa situazione, di confrontarsi con le diverse modalità di far fronte alla malattia, di capire le proprie emozioni vedendo le reazioni degli altri, facendo sentire tutti capaci di aiutare gli altri e non soltanto di essere aiutati.
L’esperienza del gruppo aiuta anche a combattere la sensazione di solitudine che prova il malato in alcuni momenti della malattia e gli rende possibile la condivisione immediata, senza troppe spiegazioni, con chi capisce quello che lui sta vivendo perché lo ha provato sulla propria pelle. Il lavoro in gruppo aiuta anche le persone ad attivare abilità più adattive, come ad esempio l’ironia, e serve a scambiarsi piccoli consigli per affrontare meglio la quotidianità.
La presenza di uno psicologo come conduttore può aiutare la riflessione su temi psicologici più delicati e complessi e servire da protezione per coloro che si trovano in un momento di particolare fragilità.
Nel caso si riscontri la presenza di sintomi di ansia patologica o depressione è opportuno confrontarsi con il proprio gastroenterologo e richiedere una visita psichiatrica.
Lo psichiatra è un medico che ha conseguito una specializzazione in psichiatria al fine di curare i disturbi psichici attraverso un trattamento farmacologico.
Il trattamento con psicofarmaci deve essere fatto sotto la supervisione dello psichiatra, così come ogni variazione deve sempre essere concordata. Anche un trattamento con psicofarmaci può essere interrotto, con l’accordo e la guida dello psichiatra, alla remissione dei sintomi.
Resilienza e ottimismo
La malattia mette in crisi il sentimento di autoefficacia in modo drammatico: molte azioni e attività che prima venivano fatte abitualmente con sicurezza, sia nel lavoro che in casa, ora ci diventano più difficili, con grande senso di fallimento personale. Allo stesso tempo la malattia ci fa però scoprire anche aspetti importanti di noi e risorse che non credevamo di avere.
La capacità di riprendersi dalle crisi e di superare le difficoltà della vita uscendo più forti e pieni di nuove risorse dalle avversità è definita resilienza.
La resilienza fa sì che le persone risanino le loro ferite (del corpo come della mente), assumano il controllo della propria esistenza e riprendano a vivere pienamente. Gli individui resilienti possiedono la fiducia che le avversità possano essere superate e che valga la pena di impegnarsi per andare avanti, mantenendo così il controllo del proprio destino.
Si può anche dire che le persone resilienti siano più ottimiste di coloro che sono passivi e rassegnati, per cui sorge spontanea la domanda se resilienza e ottimismo siano doti innate o possano venire imparate. Sicuramente ci sono persone predisposte alla resilienza e all’ottimismo (quelle che vedono il “bicchiere mezzo pieno”), ma è comunque sempre possibile diventare sia resilienti che ottimisti.
L’ottimismo sembra favorire un atteggiamento di risoluzione dei problemi, l’umorismo, l’elaborazione di piani, la ridefinizione in positivo di una situazione e l’accettazione della realtà. Resilienza e ottimismo hanno anche a che fare con la capacità di assumersi la responsabilità per se stessi e per la propria vita e, in effetti, chi è capace di assumere un atteggiamento responsabile nei confronti della malattia e della cura, vive meglio e con maggiore serenità.
Cosa posso fare?
Posso iniziare considerando la malattia una opportunità e non una sciagura: posso scoprire qualche cosa di importante su di me, conoscere nuove persone, decidere di fare cose che in passato avevo scartato.
Posso anche scoprire il volontariato e impegnarmi nell’Associazione AMICI in favore dei diritti e delle problematiche di chi come me vive la malattia. In associazione si fa esperienza di una nuova socialità fatta di aiuto reciproco e di impegno comune, ma anche di sincere amicizie vissute a dispetto della distanza geografica.
Posso, ancora una volta, partecipare a gruppi di persone con MICI o semplicemente di persone che vogliono migliorare il proprio ottimismo e sviluppare la propria resilienza. Posso leggere e approfondire oltre alla conoscenza della malattia, anche il funzionamento della mente e la ricerca di strategie per migliorare la qualità della vita.
La famiglia di una persona con MICI
«La malattia mi ha insegnato a parlare, a comunicare agli altri come mi sento e ciò di cui ho bisogno, non lo avrei mai pensato prima» - Andrea, 42 anni.
Dal punto di vista psicologico la famiglia può essere considerata un gruppo primario, un piccolo gruppo cioè nel quale i membri sono in relazione diretta fra loro con legami forti di tipo affettivo. Nel gruppo primario lo scopo del legame è il benessere sia fisico che psicologico dei membri. Uno dei comportamenti tipici dei membri del gruppo primario è il prendersi cura degli altri. Appare quindi evidente che spesso a prendersi cura della persona con MICI siano i familiari, ma non è così semplice come appare a prima vista. Per chi non vive con una malattia cronica che si presenta a fasi alterne con recidive, non sempre è semplice capire comportamenti e atteggiamenti di chi invece ne soffre, figuriamoci poi i pensieri.
Essere in difficoltà a causa della malattia significa spesso essere in condizione di dover chiedere aiuto (materiale o psicologico che sia), ma non sempre è facile trovarsi nella posizione di chi ha bisogno. La malattia richiede spesso momenti di recupero che possono sembrare al partner comportamenti ostili o di rifiuto, è anche vero che fra le reazioni emotive alla malattia la rabbia è spesso molto presente ed è sicuramente percepita da chi ha un legame con noi.
Cosa posso fare se sono un familiare di una persona con MICI?
Per prima cosa posso informarmi sulla malattia, cercare di capire quali sono i sintomi, quali le terapie, quali le possibili evoluzioni. Se il mio familiare lo apprezza, posso partecipare alle visite e agli esami di controllo così da vivere pienamente i momenti della cura. Posso accogliere dubbi e preoccupazioni, ma anche condividere i miei in modo che il rapporto resti equilibrato.
Devo cercare di distinguere fra sintomi della malattia (ad esempio la fatica o il rischio di non controllare l’intestino) e rapporto affettivo e se non capisco, devo chiedere per non attribuire a cause interpersonali ciò che è fisico. Devo permettere al familiare malato di non essere sempre di buonumore, di prendersi dei tempi di recupero, di voler stare da solo.
Non c’è dubbio che la cosa migliore da fare è migliorare la comunicazione familiare per migliorare il clima relazionale, la comprensione reciproca e il rispetto degli spazi necessari ad ognuno per fare i conti con i propri problemi (e questo vale sia per i malati che per i non malati!).
Leggi l'approfondimento relativo all'aspetto psicologico nella diagnosi e convivenza con una MICI.